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Il monito di Primo Levi

Nell’anniversario del Giorno della Memoria, pubblichiamo un articolo che venne realizzato dallo scrittore Primo Levi e che apparve sul quotidiano La Stampa il 9 febbraio 1975. Rileggere quanto ebbe allora a scrivere l’autore del celebre volume Se questo è un uomo è, oggi come ieri, importantissimo. Ma non solo. Le vicende accadute negli ultimi mesi anche nella nostra città, infatti, rendono le parole ammonitrici scritte tanti anni fa da Primo Levi quanto mai attuali. E, purtroppo, in modo terribilmente inquietante.
Primo Levi
Non siamo mai stati molti: eravamo qualche centinaio, su troppe migliaia di deportati, quando, trent’anni fa, abbiamo riportato in Italia, ed esposto allo stupore attonito dei nostri cari (chi ancora li aveva), il numero azzurrino di Auschwitz tatuato sul braccio sinistro. Dunque era vero quello che raccontava Radio Londra; era vero alla lettera quello che aveva scritto Louis Aragon, «…marqué comme un botali, et comme un bétail à la boucherie».
Ora siamo ridotti a qualche decina: forse siamo troppo pochi per essere ascoltati, ed inoltre abbiamo spesso l’impressione di essere dei narratori molesti; talvolta, addirittura, si avvera davanti a noi un sogno curiosamente simbolico che frequentava le nostre notti di prigionia: l’interlocutore non ci ascolta, non comprende, si distrae, se ne va e ci lascia soli. Eppure, raccontare dobbiamo: è un dovere verso i compagni che non sono tornati, ed è un compito che conferisce un senso alla nostra sopravvivenza. A noi è accaduto (non per nostra virtù) di vivere un’esperienza fondamentale, e di apprendere alcune cose sull’Uomo che sentiamo necessario divulgare.
Ci siamo accorti che l’uomo è sopraffattore: è rimasto tale, a dispetto di millenni di codici e di tribunali. Molti sistemi sociali si propongono di raffrenare questa spinta verso l’iniquità e il sopruso; altri invece la lodano, la legalizzano e la additano come ultimo fine politico. Questi sistemi si possono, senza alcuna forzatura di termini, designare come fascisti: conosciamo altre definizioni del fascismo, ma ci sembra più preciso, e più conforme alla nostra esperienza specifica, definire fascisti tutti e soli i regimi che negano, nella teoria o nella pratica, la fondamentale uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani. Ora, poiché l’individuo o la classe, i cui diritti vengono negati, raramente si adatta, in un regime fascista si rende necessaria la violenza o la frode. La violenza, per eliminare gli oppositori, che non possono mancare; la frode, per confermare ai ligi che l’esercizio del sopruso è lodevole e legittimo, e per convincere i sopraffatti (entro i limiti, che sono ampi, della credulità umana) che il loro sacrificio non è un sacrificio, oppure che è indispensabile in vista di qualche scopo indefinito e trascendente.
I vari regimi fascisti differiscono fra loro per il prevalere della frode o rispettivamente della violenza. Il fascismo italiano, primogenito in Europa e sotto molti aspetti pionieristico, sulla base originaria di una repressione relativamente poco sanguinosa ha eretto un colossale edificio di mistificazione e di frode (chi ha studiato in anni fascisti ne conserva un bruciante ricordo) i cui effetti durano tuttora. Il nazionalsocialismo, ricco dell’esperienza italiana, nutrito di lontani fermenti barbarici, e catalizzato dalla personalità ìnfera di Adolf Hitler, ha puntato sulla violenza fin dal principio, ha riscoperto nel campo di concentramento, vecchia istituzione schiavista, un «instrumentum regni» dotato del potenziale terroristico che si desiderava, ed ha proceduto su questa via con incredibile rapidità e coerenza.
Colori per la morte
I fatti sono (o dovrebbero essere) noti. I primi Lager, frettolosamente approntati dalle SA subito, fin dal marzo 1933, tre mesi dopo l’ascesa di Hitler al Cancellierato; la loro «regolarizzazione» e moltiplicazione, fino a cento e più alla vigilia della guerra; la loro mostruosa crescita, in numero ed in misura, in coincidenza con l’invasione tedesca della Polonia e della fascia occidentale dell’Urss, che contengono «le sorgenti biologiche del giudaismo».
A partire da questi mesi, i Lager cambiano natura: da strumenti di terrore e di intimidazione politica diventano «mulini da ossa», strumenti di sterminio sulla scala dei milioni (quattro solo ad Auschwitz), e vengono organizzati industrialmente, con impianti d’intossicazione collettiva e forni crematori grandi come cattedrali (fino a 24.000 cadaveri bruciati al giorno solo ad Auschwitz, capitale dell’impero concentrazionario); poi, in correlazione coi primi rovesci militari tedeschi e con la conseguente scarsità di mano d’opera, ha luogo una seconda trasformazione, in cui, al fine ultimo (mai disconosciuto) dello sterminio degli avversari politici si affianca e convive il fine della costituzione di un gigantesco esercito di schiavi, non retribuiti e costretti a lavorare fino alla morte.
A questo punto, una mappa dell’Europa occupata dà le vertigini: solo in Germania, i Lager propriamente detti, e cioè quelli da cui normalmente non si esce vivi, sono centinaia, e a questi vanno aggiunte migliaia di campi destinati ad altre categorie: si pensi che i soli internati militari italiani erano circa seicentomila. Secondo una valutazione di William Shirer, i lavoratori coatti in Germania nel 1944 erano almeno nove milioni.
Mappa dei campi di sterminio
I campi non erano dunque un fenomeno marginale: l’industria tedesca si fondava su di essi; erano un’istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte nazista non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato mantenuto, anzi esteso e perfezionato, se l’Asse avesse vinto. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo: la consacrazione del privilegio, della non-uguaglianza e della non-libertà.
Perfino nell’interno dei Lager si stabilì, anzi fu deliberatamente instaurato, un sistema d’autorità tipicamente fascista: una gerarchia rigida fra i prigionieri, in cui il massimo potere spettava a chi meno lavorava; tutte le investiture, anche le più risibili (spazzini, sguatteri, guardie notturne) provenivano dall’alto; il suddito, e cioè il prigioniero senza gradi, era totalmente privo di diritti; e neppure mancava una sinistra propaggine della polizia segreta, sotto forma di una miriade di delatori e di spie. Insomma, il microcosmo – campo rispecchiava fedelmente il tessuto sociale dello Stato totalitario, dove (almeno in teoria) l’Ordine regna sovrano: non c’era luogo più ordinato dei Lager. Non intendo certo dire che quel nostro passato ci induca a detestare l’ordine in sé, bensì quell’ordine, perché era un ordine senza diritto.
Con tutto questo alle spalle, sentire parlare oggi di ordini nuovi, di ordini neri, è per noi strano: è come se le cose avvenute non fossero mai avvenute, come se non significassero nulla e non servissero a nulla. Eppure, l’atmosfera della repubblica di Weimar non era molto diversa dalla nostra; eppure, dai primi Lager rudimentali delle SA alla rovina della Germania, allo sfacelo dell’Europa, ed ai 60 milioni di morti della seconda guerra mondiale, non erano passati che dodici anni. Il fascismo è un cancro che prolifera rapidamente, e un ritorno ci minaccia: è troppo chiedere che ci si opponga agli inizi?

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