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Donne e sport

I recenti successi di valenza mondiale riportati da atlete italiane nello sport  hanno ricondotto l’attenzione del pubblico nei confronti dello sport italiano al femminile. Il rapporto fra donne e sport ha radici molto antiche: nei mosaici romani rinvenuti nella splendida Villa del Casale di Piazza Armerina in provincia di Enna, si contano numerosi riferimenti iconografici a donne impegnate in attività agonistiche. Siamo in piena Magna Grecia, e quindi queste testimonianze farebbero pensare a una presenza femminile estesa anche alle Olimpiadi antiche, anche se di questa non sono rimaste tracce precise. E’ comunque più che probabile che la pratica sportiva femminile, nel bacino del Mediterraneo, risalga almeno a 2000 anni prima di Cristo, anche se limitatamente a specialità di corsa e ginnastica a corpo libero o con attrezzi come nastri e bastoncini.
Nell’Ottocento quando si cominciò a delineare l’aspetto che avrebbe avuto lo sport, cioè come tipicamente laschile era evidentente che le donne in questo contesto avrebbero ricoperto un ruolo assolutamente marginale. Basti pensare che Pierre De Coubertin, promotore delle Olimpiadi moderne di Atene (1896) che non era al corrente della partecipazione femminile ai Giochi Olimpici dell’antichità, si ritenne autorizzato a non invitare alcuna atleta donna. Anzi, la presenza del sesso femminile all’interno dello stadio era sfruttata unicamente per servizi piuttosto umili, come sorreggere gli allori olimpici durante le cerimonie di premiazione.
Le radici di questo comportamento sono da ricercare nel progressivo prevalere delle filosofie romantiche tipicamente ottocentesche su quelle illuministe e razionaliste del Settecento: queste ultime, infatti, propugnavano, almeno a parole, la parità dei sessi, mentre il Romanticismo aveva portato con sé un’immagine della donna come di una creatura languida e malinconica, tendenzialmente impura e per questo destinata a una vita domestica, destinata alla procreazione, all’allevamento dei figli o, nel migliore dei casi, alla pratica di “arti femminee”, quali il ricamo, la poesia o giochi da tavolo.
Non ultimo ostacolo alla pratica sportiva era costituito dall’abbigliamento: la morale dell’epoca prevedeva il divieto assoluto di mostrare a sguardi maschili anche un solo centimetro quadrato di pelle nuda e proibiva di indossare vestiti aderenti; infine, fuori casa, un ampio copricapo era obbligatorio. Praticamente impossibile per le donne, quindi, poter godere di un minimo di libertà di movimento per correre, saltare, lanciare. Fu soltanto nel 1921, con la fondazione della Federazione Sportiva Femminile Internazionale, che nacque in Francia la prima organizzazione avente l’obiettivo di promuovere l’agonismo sportivo fra le donne. La Federazione organizzò a Parigi (1922) e Goteborg (1926) dei Giochi Mondiali Femminili, il cui successo di pubblico rischiò di oscurare quello delle Olimpiadi ancora totalmente maschili. Fu per questo che il Comitato Internazionale Olimpico (CIO) liberalizzò la partecipazione femminile ai giochi di Amsterdam del 1928, che videro una rappresentanza femminile impegnata nei tornei di scherma, tennis e tiro con l’arco.
Da allora, la presenza femminile alle Olimpiadi è stata in crescente aumento, ma con una lenta progressione: a Helsinki 1952, per esempio, soltanto circa la metà dei Paesi partecipanti inviò una rappresentanza femminile e a Città del Messico 1968, nonostante la massiccia presenza di atlete dei Paesi socialisti la percentuale delle concorrenti non superò il 12% (845 su 7.200) nei confronti dei maschi.
Per secoli, la maternità  ha costituito forse il più grande ostacolo alla pratica sportiva femminile. Soltanto in tempi relativamente recenti si è scoperto che questo concetto non solo non è assolutamente vero, ma – al contrario – diversi fattori depongono a favore di una nuova teoria, secondo la quale la funzione riproduttiva può addirittura essere un vantaggio per la donna nello sport. Sono molte ormai le atlete che hanno raggiunto livelli di assoluto prestigio internazionale dopo una gravidanza: la schermitrice italiana Valentina Vezzali è divenuta campionessa mondiale nel 2005 a quattro mesi dal parto. Ma ci sono esempi anche più storici, come l’atleta olandese Fanny Blankers-Koen che vinse quattro medaglie d’oro a Londra 1948 pur essendo madre di quattro figli in tenera età e la ginnasta sovietica Larissa Semenovna Latynina che vinse quattro medaglie d’oro (tre individuali e una a squadre) pur essendo incinta di tre mesi e mezzo.

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